Con lo sguardo fisso all’orizzonte, il tenente Drogo attende con trepidazione l’arrivo del nemico. Ogni giorno è un giorno di preparazione alla battaglia, ogni segnale sembra promettere azione, ogni leggenda sussurrata tra i corridoi della fortezza sembra indicare l’arrivo imminente dei Tartari. Ed è così, in quest’infinita attesa e nel torpore delle abitudini, che il tenente Drogo consuma la sua esistenza.
Il sottotenente Giovanni Drogo viene promosso tenente ed assegnato alla Fortezza Bastiani, l’ultimo avamposto all’estremo confine con il deserto dei Tartari, cimitero di guerre passate. Triste di lasciare la città e i suoi affetti, ma motivato dal prospetto di una nuova carriera militare, Giovanni Drogo si mette in marcia. La strada fino alla fortezza è lunga e solitaria, e Giovanni sogna ad occhi aperti il suo futuro, immaginandosi di vivere tra eroi di guerra e di avere anche lui occasioni per dimostrare il suo valore. Dopo giorni di marcia a cavallo, intravede finalmente un’altra figura in cammino. È il capitano Ortiz, che rientra lentamente alla fortezza. Il capitano, una sagoma rassegnata alla vita, appare a Giovanni privo di entusiasmo nell’accoglierlo e nel raccontargli la vita nella fortezza, che lui definisce come un tratto di frontiera morta, piccola e vecchissima. Giovanni, che invece si era fatto idee ben diverse sulla vita in fortezza prima di partire, inizia a preoccuparsi e a domandarsi in che razza di posto sia stato mandato, così lontano dalla città e sconosciuto da molti. I suoi dubbi vengono presto chiariti e capisce di essere finito in una fortezza ormai decadente e svuotata della sua importanza strategica. I vecchi tenenti e ufficiali lo avvertono subito di andarsene prima che sia troppo tardi e rimanga bloccato lì, come invece è successo a loro. Giovanni non perde tempo e chiede il trasferimento in città, che gli viene promesso dopo solo quattro mesi. I giorni passano, e Giovanni si ritrova a seguire le regole ferree militari della fortezza messe in atto nel caso improbabile di apparsa del nemico all’orizzonte. Nei suoi turni con le sentinelle, ammira il paesaggio desertico e roccioso, e cresce in lui il desiderio di vedere apparire all’orizzonte i Tartari e di poter essere tra i pochi fortunati a combatterli. Mentre i giorni finiscono, quest’ossessionata speranza di vedere apparire il nemico contro le aspettative di tutti prende il sopravvento. Incapace di ritrovare il suo posto in città, incapace di rinunciare all’idea dell’ipotetica battaglia, e incapace di resistere all’ossessionata attesa, Giovanni rimane bloccato alla fortezza, come i vecchi ufficiali prima di lui. Invecchia tra le mura rocciose con gli occhi fissi sul deserto dei Tartari e il cuore palpitante a ogni piccolo segnale. Come era successo al capitano Ortiz, incontra i nuovi tenenti che arrivano entusiasti alla fortezza, e pensa con rammarico a quanto lui avrebbe forse voluto andarsene appena arrivato e tornare in città a condurre una vita sociale. Ma la speranza lo blocca lì e lo consuma lentamente. Si ammala e si riduce ad una sagoma tremante e giallognola bloccata a letto. I nuovi giovani ufficiali organizzano una carrozza per portarlo in città e ricevere le cure appropriate, ma lui lotta fino all’ultimo per rimanere e continuare a sperare di rimettersi in forma per poter combattere. Una mattina, suoni di guerra entrano dall’oblò della sua camera: i Tartari sono arrivati ma Giovanni, troppo debole per reggersi in piedi e troppo malato per combattere, viene messo su una carrozza in rientro in città. Sull’unica carrozza che scende, vede frustrato i numerosi soldati, tenenti e carrozze di ufficiali che salgono per combattere la tanto attesa guerra contro i Tartari, che lui solo si perde. Alla fine, Giovanni vive la sua battaglia con la morte, non sul campo di guerra ma nel letto sconosciuto di una locanda, da solo, nel buio. Muore lottando e vincendo, cancellando la sua paura della morte e consapevole di aver dato un senso intimo alla propria vita.
Dino Buzzati è stato un famoso scrittore italiano e giornalista del Corriere della Sera, dove ha lavorato come redattore, cronista e inviato speciale per parecchi anni. Questo romanzo è forse la sua opera più famosa ed è una chiara allegoria alla sua esperienza professionale nel Corriere della Sera, dove ha lavorato giorno e notte dal 1933 al 1939 sperando in una grande occasione. Lorenzo Viganò, collega giornalista al Correrie della Sera, riporta di come, in quel periodo, il tempo in redazione era uguale e immobile, scandito dall’inesorabile ripetersi dei giorni e delle ore di lavoro, e dall’allontanarsi di un sogno di gloria, che però alla fine arriva sia per Buzzati che per Giovanni Drogo. Il romanzo, semplice e lineare nella storia, ha un messaggio magnifico e intramontabile: è un chiaro esempio di come le abitudini intorbidiscano e facciano perdere la concezione del tempo, e di come la speranza acciechi e immobilizzi. Ho apprezzato molto il commento di Lorenzo Vigano al libro: è stato lui ad averlo paragonato a quasi un’autobiografia di Buzzati.